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342 Cuore infermo

manda — e sempre non osavo. Non so neppure io il perchè. Vi è una fatalità, forse. Vi è della gente che si consola con l’idea della fatalità. E vedete, ella è andata via, ella è partita senza dirmi il suo segreto; l’ignoto della sua esistenza si è perduto nell’ignoto della tomba. Io l’ho ritrovata, come era nei suoi momenti di concentrazione, col volto contratto da una immensa disperazione. La ho innanzi agli occhi, non la posso dimenticare. — Di nuovo, sapevate voi nulla, padre mio? — riprese Marcello, dopo aver aspettato del tempo per calmarsi.

— Io? — disse Revertera, trasalendo.

— Sì, voi, padre.

Revertera non rispondeva; forse interrogava i suoi ricordi.

— Sai che Beatrice era molto poco espansiva... — mormorò poi.

— Eppure a me avrebbe dovuto dirmelo. Mi amava.

— Come, ti amava?

— Mi amava, mi amava. Erano quattro mesi che ella era la mia innamorata, la mia sposa, la mia signora. Ella mi amava, avrebbe dovuto dirmelo. Io la ho misconosciuta, è vero; io sono stato con lei cattivo, ma per l’amore. Quando il suo cuore ancora non veniva a me, io mi sono rivoltato contro la sua freddezza; io non ho saputo aver pazienza. Altrove l’ho ricercata presso un’altra. Ma alla prima parola d’amore, io mi sono inginocchiato dinanzi a lei, nell’idolatria di tutto il mio essere. Mi amava, ed una parte del suo cuore apparteneva al suo segreto. Questo nero, questo incognito, mi fa paura; fino all’ultimo ella ha taciuto, e nel suo silenzio mi sta terribile nella mente.

Mario Revertera pensava. Tutta la vita di sua figlia si svolgeva davanti a lui, chiara, netta, distinta. Dal giorno