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348 Cuore infermo

pareva fosse un’apparizione di pace sulla vita esuberante ed affannosa della città; la sua linea plastica e posata, la sua apparenza serena, il suo silenzio, la sua solitudine si ergevano in mezzo al tumulto, al fermento, alle convulsioni di Napoli, senza esserne tocchi. Ai suoi piedi si fermavano le onde straripanti delle case e dei sobborghi, quasi che non osassero andare più oltre. Magicamente intorno ad essa l’agitazione cadeva. Gli uomini la rispettavano. La collina col suo bel villaggio addormentato, rimaneva inviolata, con la sua grande aria giovane e verginale. Pareva posta al confine della città per frenarla nella ricchezza rovinosa della sua esistenza, per moderarne i lunghi fremiti di vita, per chetare quel palpito enorme. A compiere questo le bastava di essere tutta verde, tutta fiorita, con un manto perenne di primavera, la più bella, la più amena, la più soave, il giardino per eccellenza, il villaggio delle pietre di marmo, con le chiesuole piccole e grandi perdute nella vegetazione, Poggioreale, la casa dei morti.



Marcello pensava, guardando Napoli. Era da un’ora colà, al posto dove soleva venire a sedersi, sul poggiuolo del terrazzino, donde si scopre il panorama della città, dove i custodi conducono ordinariamente i forastieri visitatori del camposanto. Ma nessuno veniva a disturbarlo ed egli, il sognatore pensoso, si poteva abbandonare alla sua fantasia. Egli prediligeva quel posto, donde il suo sogno si allargava in un orizzonte molto vasto, assumendo proporzioni sconfinate; e rimaneva lungamente colà, temendo d’andarsene, temendo di ricadere nella deserta, stretta ed arida solitudine del suo cuore. Aveva finito per interessarsi a quello spettacolo immenso. Quelle variazioni di ombre e di luci, quei cangiamenti rapidi,