Pagina:D'Annunzio - Isaotta Guttadauro, 1886.djvu/277

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Epilogo 271


Io, ben uso a ’l gentil freno de l’arte,
come un orafo mastro di Fiorenza,
eleggea con acuta pazienza
le gemmate parole in su le carte;

ma, se de ’l mio pacato sofferire
il termine supremo era vicino,
a ’l cuor sentia l’ebrietà salire
quasi io bevessi un calice di vino.

Fluiva su ’l marmoreo pavimento
un lume biondo come l’idromele;
e il bel violinista Rafaele
parca toccar le corde a ’l suo stromento...

O Francesco, m’è grato il rammentare!
Or n’andremo a la patria, ove più molle
per la falcata riva ondeggia il mare
e più mite è l’olivo in cima a ’l colle.

Ne la tua vasta casa, ad ogni stanza
penderanno li arazzi medicéi
e, come ne’ bianchi atrj di Pompei,
discenderà la luce in abondanza.

Tu, signor del pennello, io de la rima,
fingeremo beltà meravigliose.
E riderà de’ miei pensieri in cima
quella che il suo d’amor giogo m’impose.