Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/112

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Capitolo IX.


Dal principio del mondo in qua gli uccelli sono sempre stati presi dagli uccellatori a un dipresso cogli stessi zimbelli, e gli uomini sono sempre stati colti alle stesse reti.

Ma la più pericolosa di tutte è forse quella che mette in giuoco il nostro amor proprio. Lo sapeva D. Michele, e conosciuto di qual piè zoppicasse il podestà, in pochi colpi, come abbiamo veduto, l’ebbe in sua mano. Quando uscì dall’anticamera di Consalvo per cercar del servitore della comune, andava fantasticando, rivolgendo fra sè mille pensieri, e non capiva in sè dall’allegrezza d’aver trovato chi gli prometteva tante maraviglie. Talvolta, è vero, gli nasceva il sospetto fosse un ciurmatore, ma avendo alta idea della propria avvedutezza, diceva come tutti quelli che passan la loro vita ad esser fatti fare: «A me non me la fanno.»

Si trovò all’osteria del Sole secondo l’appuntamento. Ma non ebbe per allora nulla a dire a D. Michele, poichè il servo, che a suo credere era tanto mirabile indagatore, aveva promesso molto, operato poco, e scoperto niente.

La sera a cena, la moglie e la fante s’accorsero che qualche gran cosa gli bolliva nel cervello, e non gli lasciarono mangiar boccone che gli piacesse, a furia d’interrogazioni. Fu gran fatto che non ispiattellasse tutto: chè il serbare un segreto, massime se gli pareva potesse dargli riputazione, era per lui maggior fatica che il trattener la tosse a chi n’abbia il prurito. Già gli uscivan delle mezze parole. Eh, lo so io?... se sapeste?... se mi va bene un certo affare!... Poi pensò ad un