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chiaro verde nel cielo livido; radi goccioloni macchiavano la ghiaia.

«Eh, sì signora, paura. — Proprio, anche: paura. — Paura, non è vero? — paura, sipo.

Era un coro di quattro o cinque fra signore e signorine in fronzoli, molto serie, molto irrigidite dal grande onore di trovarsi in casa della contessa Tarquinia Carrè.

«Sei punti a me!» gridò il senatore.

«Quanti?» rispose un personaggio invisibile.

«Sei, sei, sei! Siete sordo?

«No, ma i preti ah!

«Già; è un baccano! Fate un poco tacere a quei preti, contessa Tarquinia!

I preti giuocavano a tresette nella stanza del piano, vociavano, schiamazzavano.

«Scusate caro voi, Grigioli» disse la contessa a un giovane che parlava con la baronessa Elena Carrè Di Santa Giulia, seduta sul canapè vicino. «Andate a pregare i reverendi, con buona maniera, di non far tanto chiasso.»

Quegli s’inchinò.

«Benedetta la Sicilia» gli disse piano la contessa.

«A proposito, mi raccomando, eh!

«Cosa, contessa?

«Dove avete la testa? Cortis.

«Eh sì, va benone, contessa. Cinquanta voti sicuri, qui. Lo dicevo adesso alla baronessa Elena.

«Non parlate, caro voi, di queste cose a mia figlia, che non sa che cosa sieno nè la destra nè la sinistra. Andate là, andate là da quei reverendi... Dov’è Cortis?» diss’ella a sua figlia, poi che il giovane si fu allontanato.