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denza. Ogni tanto qualcuno s’alzava, scivolava di fianco, in punta di piedi, lungo i sedili. Poche persone vi duravano a guardare il discorso del ministro e a udire i benissimo della Camera. Invece le tribune politiche rigurgitavan di gente. Nella tribuna dei senatori, Clenezzi guardava spesso le signore, cercava farsi riconoscere, ma inutilmente. Ad un tratto il ministro tacque e sedette. Un rumore sorse dal fondo dell’aula, come di un nuvolo di mosconi che si levassero ad un tempo dal cibo.

«Ci siamo» disse la contessa Tarquinia. «Cosa fa Cortis?» Cortis posava in quel momento sul banco le braccia incrociate e sulle braccia la testa. Non era la sua volta. Un altro ministro si alzò a presentare una relazione; poi l’onorevole Magliani, che aveva solo chiesto di riposare per cinque minuti, ripigliò il suo discorso. Elena era inquietissima. Vedeva che Cortis si sentiva male, temeva che non potesse parlare come avrebbe saputo, e che avesse poi a soffrirne moralmente. Avrebbe voluto vederlo alzarsi, andar via: le facevan rabbia quei deputati suoi vicini di posto che non si movevano per domandargli se fosse malato, per consigliarlo di andar via. Non aveva dunque amici, Cortis, in tutta la Camera? Si struggeva di scender lei a condurlo fuori. Pensava se non vi fosse modo d’incaricarne T. Si fece prestare un binocolo da una signora vicina onde scoprirlo, accennargli, se possibile, di venire nella tribuna. Ma prima guardò Cortis. In quel momento qualcuno gli batteva sulla spalla. Egli si scosse, alzò la testa. Ora Elena lo potè veder bene in viso. Era molto acceso, forse per essere stato tanto tempo col capo sul banco. Lo vide scambiar poche parole con