tale d’Alessandro Manzoni. In alcuni punti fummo costretti ad arrampicarci come gatti, aggrappandoci ai cespugli e all’erbe, strisciando sulle roccie, raspando, sgambettando, afferrando le braccia delle nostre guide come il naufrago afferra la tavola di salvamento. Di tratto in tratto vedevamo sopra di noi qualche capra che pareva sospesa sulle nostre teste, tanto era erta la salita; e i sassi, appena tocchi, rotolavano fino ai piedi del monte. Coll’aiuto di Dio, dopo un’ora di stenti, riuscimmo sulla cima, sfiniti, ma senza rotture. Che bellezza di veduta! Giù nel fondo la città, una piccola macchia bianca della forma d’un otto, circondata di mura nere, di cimiteri, di giardini, di case di santo, di torri, e tutta la conca verdissima che la contiene; a sinistra una lunga striscia luccicante, il Sebù; a destra, la grande pianura di Fez, rigata d’argento dal Fiume delle perle e dal Fiume della fontana azzurra; a mezzogiorno, le cime azzurrine della gran catena dell’Atlante; a settentrione, le vette delle montagne del Rif; ad oriente, la vasta pianura ondulata dove è la fortezza di Teza, che chiude il passo fra il bacino del Sebù e il bacino della Muluia; sotto di noi, grandi ondulazioni di terreno, gialle di grano e d’orzo, segnate da innumerevoli sentieri, percorse da lunghissimi filari di aloè giganteschi; una grandezza di linee, una