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106 l’entrata dell’esercito in roma.

cipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, travedo un’immensa macchia nera sul cielo, e tanto è l’impeto e la dolcezza con cui i ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in un punto, che non s’arresta il mio sguardo sui meravigliosi contorni, nè ivi si può arrestare il pensiero. Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che potrà mai destare in me l’amor di patria, sciolgo un ringraziamento a quella Giustizia nel cui nome l’Italia gridò al mondo: — Voglio la libertà — e giurò di conseguirla; nel cui nome aspettò per tanti anni, confidò, sperò, sofferse, sorse, bagnò del sangue dei suoi figli tutti i suoi monti e tutti i suoi fiumi, cacciò lo straniero, si compose a nuova vita; nel cui nome è entrata oggi in Roma e ha inalberato sulla torre del Campidoglio la sua bandiera gloriosa, benedetta ed amata.

II.

Roma, 26 settembre

Senz’aver veduto Roma è impossibile formarsi una giusta idea dell’effetto che può fare. E di Roma come di Venezia: la prima cosa che si fa, appena entrati, è di dimandarsi se si sogna o se si è desti. Sembra una città guardata a traverso d’una lente che ne ingigantisca i contorni. Si direbbe che le case, le piazze, le chiese, le fontane, le scale, le colonne, tutti i monumenti di Roma sono stati fatti da una razza d’uomini fisicamente il doppio di noi. Noi ci sentiamo piccoli, passando per queste piazze e per queste vie; ci pare d’esserci rifatti bambini; l’uomo diventa formica, come dice Victor Hugo. Per guardare il sommo degli edifici e delle colonne bisogna torcersi il collo;