Pagina:De Joinville, Galvani - La sesta crociata - 1872.djvu/297

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parte seconda. 233

tal dì iscapolava di quella perigliosa terra ove noi eravamo dimorati sì lungamente.

Il Sabbato inseguente arrivammo sull’Isola di Cipri, e ci aveva una montagna appresso l’Isola che l’uomo appellava la montagna della Croce, alla quale montagna si potea conoscere da lunge che si approssimava alla detta Isola di Cipri. E sappiate che quello Sabbato sul vesperare si levò un grande nebbione, il quale della terra discese sul mare, e lo abbuiò talmente che i marinieri pensarono essere assai più lunge dall’Isola ch’essi non erano veramente: di che perderono la montagna di vista, la quale si stinse entro la tenebra del caligato. Ed in così avvenne che, nello intento di arrivare di buon otta all’Isola, i nostri marinai s’isforzarono di navigare a gran vigore di braccia, perchè sprovvedutamente andammo ad abbordare su una coda di sabbia ch’era poco sotto mare; e se per avventura non ci fossimo così arrenati, saremmo andati ad urtare a di grandi rocce canterute ch’erano colà presso nascose, e vi saremmo stati tutti pericolati e sommersi. Con tutto ciò fummo noi a grande disagio là ove eravamo atterrati, perchè ciascuno si pensò d’essere annegato e perduto e che la galea si fendesse. Il Piloto gittò allora suo piombino in mare, e trovò che la nave non era punto arrenata e che l’acqua bastava a rigallarla, di che ciascuno cominciò a rallegrarsi ed a renderne grazie a Dio. E ce n’avea molti prostesi dinanzi il Sacrosanto Corpo di Nostro Signore ch’era in vista sulla nave, gridando perdono a Dio poichè ciascuno s’attendeva alla morte. E tantosto