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vere, non le posso.... Perchè vi sono certe cose che non si possono scrivere, e neppur dire? Ma se avessi una sorella! A lei direi tutto, lo sento!...»

Un giorno finalmente, non potendo a lungo mantenere il secreto col padre, gli aveva confidato che teneva quel diario. Per fortificar la memoria ella vi soleva ricopiare le poesie che più le piacevano: c’erano versi del Prati, dell’Aleardi, del Manzoni, di Shelley, di Byron; un giorno, recitando al padre una poesia di Victor Hugo trascritta da un giornale e non rammentandola bene, era andata a prendere quel suo libro:

«Ho detto al babbo che qui ricopio le belle poesie e scrivo le mie impressioni. Quantunque risoluta a dirgli tutto, pure speravo che egli non avrebbe voluto leggervi. Quando mi domandò: «Mi lasci vedere?» gli diedi il libro, ma credo d’essermi fatta molto rossa in viso. Il babbo ha letto qualche rigo, in due o tre pagine soltanto, poi l’ha chiuso, abbracciandomi strettamente, baciandomi in fronte, anch’egli con gli occhi rossi. Allora, venutomi un gran coraggio e quasi un pentimento della mia paura, l’ho pregato di leggere tutto; ma egli non ha voluto. Ho dovuto leggere io stessa. E così la vergogna se n’è andata e ora mi sento come liberata, da un gran peso, e contenta, contenta...»

Ella nominava la prima volta il conte Luigi d’Arda nel parlare di poesia e d’arte; quel nome tornava