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i - i siciliani | 15 |
eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un’anima piena di tenerezza e d’immaginazione:
Tapina me che amava uno sparviero; amaval tanto ch’io me ne moria; a lo richiamo ben rn’era maniero, ed unque troppo pascer noi dovia. Or è montato e salito si altero, assai piú altero che far non solia; ed è assiso dentro a un verziero, e un’altra donna l’averá in balia. Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito; sonaglio d’oro ti facea portare, perché nell’uccellar fossi piú ardito; or sei salito siccome lo mare, ed hai rotti li geti1 e sei fuggito quando eri fermo nel tuo uccellare. |
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza piú chiara di sé e venisse a maturitá. La rovina fu tale che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi giá nelle classi inferiori ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza né l’elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall’immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dá una fisonomia abbandonata e musicale, come d’uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualitá spiccata de’ dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò piú. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini loro fidi. La parte popolana ebbe il di sopra in Toscana, e la libertá de’ comuni fu assicurata. La
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- ↑ «Geto» è un lacciuolo di pelle che si lega a’ piè degli uccelli.