Pagina:De Sanctis, Francesco – Alessandro Manzoni, 1962 – BEIC 1798377.djvu/411

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nota 405

notate che siccome il poeta che produce ha sentita la medesima impressione che sente chi legge, ciò che annoja lo scrittore annoja naturalmente il lettore, come nell’esempio apposto. E quando non trovate forza produttiva ma velleità, in modo che lo scrittore deve faticare per produrre, voi avete il gonfio e l’esagerato, il quale è sforzo e fatica, perché lo scrittore si sforzava per mancanza di facilità e di brio; in lui vi era sforzo e non forza. Ecco perché se l’ingegno basta al filosofo, non basta al poeta, il quale ha bisogno del genio. Ed il genio, o signori, non è il grado superlativo dell’ingegno; per esso non c’è quistione quantitativa, perché è sui generis, non è visione, ma è la volontà di realizzare la visione: e ciò si scorge anche nel linguaggio volgare, quando si dice che si ha genio a far qualche cosa, volendo esprimere il brio e la facilità, con cui quella qualche cosa è prodotta. Ed un segno esterno per riconoscere un’opera geniale è questo, quando cioè nell’opera di uno scrittore è cancellato lo scrittore, quando egli non vi ha lasciato menomamente l’orma di se stesso: che se vi accorgerete d’una impressione qualunque che l’autore lasciò di sé, nella sua produzione troverete immancabilmente lo sforzo e però l’esagerato.

Di poeti geniali ce n’è molto pochi, e fra questi il più geniale è Ludovico Ariosto, e dopo di lui si può mettere con franchezza il Manzoni. Manzoni è inferiore al Dante e al Petrarca per altro rispetto, ma in quanto alla facilità è difficile il raffrontarlo con chicchessia. Ed è superiore all’istesso Goethe, perché in costui ci vedete il filosofo che oltrepassa lo scopo della produzione, mentre Manzoni è veramente geniale, e la sua creatura più geniale è il Don Abbondio, carattere nuovo e la creatura più perfetta che sia uscita dalla sua immaginazione. Subito che Don Abbondio comparisce in iscena, voi lo trovate in una di quelle stradicciuole sul lago di Como; e voi avete avuto l’agio di osservare ne’ piccoli paesi alcuni buoni preti, che si fanno la loro passeggiata verso la sera, dicendo tranquillamente il loro ufficio, e fra un salmo e l’altro chiudere il breviario, tenendovi per segno il dito, e poi mettere le mani dietro la schiena e continuare il cammino, guardando a terra e buttando con un piede da un canto i ciottoli che fanno inciampo nel sentiero; e gli avete visti girare — perché hanno le teste vuote — oziosamente gli occhi intorno. A Don Abbondio, girando appunto gli occhi, si presenta una scena bellissima, della luce del sole già scomparso, che scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là ne’ massi sporgenti, come a larghe ed inuguali pezze di porpora. Ebbene Don Abbondio si ferma macchinalmente, ed aperto di nuovo il breviario, recita un altro squarcio... quella scena non gli ha prodotto impressione veruna. Avete dunque qui tutto intero l’animo di Don Abbondio non mediante riflessioni dell’autore, ma per atti che il Manzoni ha ritratti dal vero; certi piccoli atti caratteristici, che sfuggono a’ mediocri, ma che egli scolpì sì vivamente, perché è produttore geniale.