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96 giacomo leopardi

gloria, dalla bellezza, illusioni anch’esse. Regge il mondo una forza infinita ed eterna, arcana, ascosa alla ragione, e i viventi sono castelli di carta, ch’essa fa e disfà per suo trastullo. La vita non ha scopo e le azioni umane sono un’agitazione nel vuoto. Il n i e n t e solo è. Vita e morte sono una cosa. Sono il n i e n t e. Questo è il sugo del discorso.

Questo non è ancora una filosofia. È il cattivo germoglio della disperazione. È la secrezione dell’umor nero. È la sua malattia. Egli medesimo se ne accorge nei momenti di pacatezza, e ne fa una diagnosi come un medico. Interpetra la sua vita, cioè il suo modo di pensare e di sentire, fisiologicamente. A sentirlo, le cagioni del suo male sono:

debolezza somma di tutto il corpo e segnatamente dei nervi, e totale uniformità, disoccupazione e solitudine forzata, e nullità di tutta la vita. Le quali cagioni operavano ch’io non credessi, ma sentissi la vanità e noia delle cose, e disperassi affatto del mondo e di me stesso.

Non erano dunque idee, erano sentimenti. La malattia non era nell’intelletto, era nel cuore. Gli pareva di credere e ora che il cuore è guarito e sente come uomo sano, si accorge che quello non era un credere, ma un sentire.

Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch’io giudico isolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell’infelicità mia particolare, che dalla certezza dell’infelicità universale e necessaria.

E in verità, a quanti in certi momenti oscuri della vita non occorre di dover recitare anche il «vanitas vanitatum et omnia vanitas», l’infinita vanità del tutto? Poi risensiamo.

Il povero Leopardi, e per naturale disposizione e per un cumulo di condizioni fisiche e morali, era un martire della vita. E nessuna meraviglia è che egli la maledica e la chiami vana e quasi il medesimo che la morte. Per ora la malattia è nel cuore,