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128 giacomo leopardi

in serbo, aspettando ch’io abbia imparato a poterla significare. Oltre che la facoltà della parola aiuta incredibilmente la facoltà del pensiero, e le spiana e le accorcia la strada. Anzi mi sono avveduto per prova, che anche la notizia di più lingue conferisce mirabilmente alla facilità, chiarezza e precisione del concepire. La poesia l’ho quasi dimenticata, perch’io vedo, ma non sento più nulla.

Leopardi aveva ragione. Niente è più acconcio a sviluppare l’intelligenza che una buona educazione letteraria. Posta la base, si rivelano in lui nuovi bisogni intellettuali, e, maestro di sé, comincia i suoi studi filosofici, e, come scrive altrove, «quali sono oggidí, non quali erano al tempo delle idee innate». Ciò vuol dire che studiava i sensisti, ancora in voga, i quali non ammettevano le idee innate. Certo, la filosofia era allora in aperta rottura con i sensisti, e Locke e Condillac non erano più l’ultimo suo termine. Chiamava egli «oggidì» quello che in filosofia era già ieri. Ma cosa farci? In Italia, figurarsi poi in Recanati, la scienza giungeva di seconda mano, e a tutto suo comodo. Anche ai tempi miei, la logica dell’abate Troisi era il «non plus ultra», e dopo, Galluppi parve un miracolo. Quanto alla forma, già non gli pare più un esemplare la prosa di Giordani, il quale egli chiama la misura e la forma della sua vita, sì che «quanto vive e quanto pensa e quanto si adopera non è quasi ad altro fine che d’essere amato e pregiato da lui». Ma l’affetto e la riverenza non gli nasconde «l’oscurità e la fatica» di quella prosa, e vagheggia una lingua filosofica, senza la quale «l’Italia non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione». Vuole scrittori e non copisti, cioè filosofi inventivi e accomodati al tempo, i quali, oltre all’«esortare», diano notabile esempio di filosofia e di buona lingua.

Con questi propositi voleva scrivere delle lingue, e trattava anche materie filosofiche. È chiaro che quelle certe sue «prosette satiriche» erano abbozzate con questo fine, e ne uscirono poi i Dialoghi e le Operette morali. Era il tempo de’ puristi, che ti davano parole e non cose, e si stavano contenti allo «esortare»,