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xxv. la morale di leopardi 207

se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei.

Con questa filosofia pratica di Epitteto concorda la morale cristiana, la quale ha per base la rassegnazione ai voleri divini imperscrutabili. Quello che in Epitteto è il Savio, nella morale cristiana è il Santo. Idee simili pullulano in tempi guasti e tristi, nei quali all’uomo non rimane che ritirarsi in sé stesso tranquillamente e fuggire le perturbazioni dell’animo. Nell’uso volgare seguire la filosofia o essere un filosofo si dice appunto in questo senso.

Leopardi, che nella sua giovinezza si dibatte contro il destino, finisce in questa quietudine raccomandata da Epitteto e da Isocrate, non senza qualche momento di ribellione suicida in giorni tristi.

Accanto a questa filosofia della consolazione e della rassegnazione ci ha una morale eroica e virile che predica la lotta contro il male e, come dice Leopardi, contro il Fato e la Natura. Questa lotta era possibile negli antichi tempi, quando l’intelletto non era ancora adulto, e gli uomini si governavano con l’immaginazione e col sentimento, e popolavano di felici errori il mondo. Ma la lotta oggi non ha senso, appunto perché l’intelletto divenuto adulto giudica errori ed illusioni quei nobili fini che gli antichi seguivano nella vita, come virtù, gloria, sapere. La lotta non può avere altro scopo che di ravvivare le forze dell’immaginazione e del sentimento, le quali ci allettino a quei fini, posto pure che sieno mere illusioni.

Questa morale eroica, fondata sull’affratellamento di tutti gli uomini contro il destino, quantunque rimanga astratta e sia contraddittoria ed impotente, è la parte piú originale e altamente poetica del pensiero leopardiano.