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iv. 1815 - gl’«idillii» di mosco 27

        Qui è accento su tutte le sillabe pari, e la voce, in cambio d’incontrarsi in un punto solo e corrervi rapida, si divide ugualmente su ciascuna parte. Stupendo è il verso di Dante:

Di qua, di là, di su, di giù li mena,
dove il movimento vorticoso e rapidissimo del vento è significato da quel continuo mutarsi del luogo senza tregua, «di qua, di là, di su, di giù».
Ma qui non è moto di luogo a luogo, anzi non c’è luogo; è una velocità di moto, che ti ruba ogni vista intermedia e non ti lascia avanti che la mèta o il punto d’arrivo, il mare. Quella pienezza di accenti, quella divisione uguale è tardezza, non è celerità; e il verso, che con un vero crescendo dovrebbe trovare in ultimo il suo appoggio, dopo quel «fuggì», ti casca in mano prima che tu giunga. Chi vuol vedere la celerità del moto, ricordi il celebre:
Non scese, no, precipitò...,
dove è un sol movimento, è un solo suono, e non senti altro che l’«o», il rumore della caduta.
Ecco nella Megara un altro verso viziato:
Vennegli intorno un instancabil fuoco,
dove quell’«en, in, un» rendono faticoso il ritmo e fanno intoppo nell’orecchio. E fanno nell’orecchio ingombro e frastuono questi altri versi:
               .   .   .   .   .   . non so .   .   .
Se mai .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
io rivedrollo e stringerollo al seno
               .   .   .   .   .   . piccola face,
Onde talor l’istesso sole infiamma.
Qui il verso giungendo all’orecchio non passa e non ti porta all’idea.

Ma, senza troppo fermarci in queste mende, il verso è in generale corretto e di buona fattura, e la base della poesia è