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viii. 1817 - corrispondenza con giordani 59
A diciannove anni la sua complessione, debolissima per natura, era già logora dall’eccessivo e assiduo lavoro, e la vista gli si era infiacchita in modo, che poco potea più leggere o scrivere. Nel suo isolamento morale, sdegnoso di divertimenti e distrazioni, che chiamava occupazioni mondane, passeggiava lunghe ore nella stanza tutto solo, fra due stati ugualmente micidiali: o un pensiero concentrato ed ozioso, nutrito di disegni in aria che sapeva di non poter eseguire, e che gli rendeva più acuto il dolore del suo stato; o la noia, ch’è il sentimento d’una esistenza vacua, con la coscienza di non poterne uscire. «Amaro e noia la vita, altro mai nulla».

        Uno stato così fatto non è niente favorevole alla produzione. Esso è accasciamento ed impotenza. Ed è la tragedia della sua vita. Proprio allora che al giovane si aprono nuovi mondi, e rifiuta tutte le sue opere, col presentimento di una grandezza futura, di cui dà per esempio Tasso, Metastasio, Alfieri, il suo stato è tale, che gli tronca a mezzo gli studi e le speranze. Questo stato ha per sua espressione la melanconia, la quale appunto è la forza senza espansione, rimasta semplice vita interiore. Guardate la sua faccia: una fronte ampia, che domina quelle guance scarne e pallide, e lo sguardo dolcissimo, indizio di mestizia e di bontà, e sulle labbra un riso che non ha la forza di uscire.

Certo, a quel cuore sì caldo, a quella squisita sensibilità, a quelle forze impazienti di luce e rimaste compresse era necessaria l’amicizia e l’amore. «Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita». Più si sentiva solo, e più doveva desiderare il suo altro. E non è dunque maraviglia che la sua amicizia verso il Giordani prenda tutte le forme dell’amore e che l’anima trabocchi.

Notabile è la terza lettera, lunga come i colloquii degli amanti, e piena di giovanile entusiasmo.

La vita sua gli si offre innanzi riflessa dalla indignazione, dalla collera, dall’amicizia, dall’attrito; egli scolpisce la sua infelicità, sfoga le sue pene, e perché le può sfogare si sente felice.

Quel giorno che scrisse quel «tomo», com’egli dice, fu un bel giorno, e così raro. Indi quella pienezza e quel calore di una