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la scuola 163

Fatta grandina, dicevano che era tutta suo padre, perciò un po’ bruttina. Stavo li come un amico di famiglia, e sentivo le grandi lodi di mammá per la figlia, e cercavo di scappar via quando sopravveniva il babbo, che m’empiva la testa di chiacchiere, parlandomi delle sue possessioni e delle liti, e non mi lasciava più, capacissimo di prendermi sotto il braccio, e volermi per forza accompagnare sino a casa, per farmi la storia d’un processo e recitarmi la sua orazione. Io sentivo di ciò una fiera noia, ma sapeva contenermi, e lui, immerso nelle sue cause, non se ne accorgeva. Venne terzo fra noi don Raffaele che mi investiva sempre col suo: «Allegramente!» Poi s’aggiunse il babbo, che veniva a Napoli di frequente, e conosceva don Tommaso, e s’intrometteva tra’ discorsi, e, faceto, impaziente, gli rompeva la parola. Cosi trovai un diversivo, e talora mi scaricava di don Tommaso, e lo regalavo a loro. Avevo preso dimestichezza con la Caterina, senza intenzione, e talora si disputava di storia greca e romana, dove lei era una dottora. La mamma rompeva le dispute con un motto d’elogio alla figlia, istruita con molta cura e con grande affetto, e pur facendo intendere che a lei, figlia unica, sarebbe spettato un ricco patrimonio. Quando io venivo in malinconia, gli amici dicevano scherzando: — C’è il mal di cuore, il mal della Caterina — . Cosi, parlando del mio amore, finii col crederci anch’io, e mi trovai innamorato senza saperlo.

Don Tommaso stese sopra un gran foglio di carta avvocatesca una lista delle sue possessioni, che non finiva mai. Ne aveva in Atripalda, ne aveva in Montesarchio, ne aveva anche in Napoli. Parlava come Carlo quinto. Sovente tirava il discorso sopra i suoi feudi. E una sera mi messe sotto il naso quella sua carta, credendo di abbarbagliarmi. Mi accompagnò, secondo il solito, e tirandomi sotto il braccio, mi narrò non so qual causa strepitosa, e sull’uscio di casa mi consegnò quella famosa carta. Vi gittai l’occhio sopra. Era un carattere impossibile; ma, uso a deciferare tutti i geroglifici dei miei scolari, non mi atterrii. Quei numeri, uno, due, tre, e via via fino a cinquanta o sessanta, mi davano il capogiro: era la lista dei suoi possedimenti.