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casi fortunati 69

non c’era altro nel mio capo che io, babbo e famiglia mia. Ora che ci guardo, mi viene da ridere. Non pensavo che in quella farsa stizzosa ciascuno rappresentava la parte a cui lo chiamava il suo interesse, e che tutto era ragionevole e non poteva andare che così. Finalmente una parola che era nel desiderio degli uni e nel timore degli altri, fu lanciata fuori come una bomba: — La divisione, vogliamo la divisione! — . E qui zio Peppe a strepitare ch’era uno scandalo, e che i panni sporchi si lavano in famiglia, e che vis unita fortior. Invano. A Napoli non si poteva più vivere, a Morra c’era da rivendicare il proprio. Partirono. Seppi che il povero zio aveva fatto la quarantena. Quando fu lasciato entrare, ricomparve nella casa paterna, dopo molti anni di assenza e di lavoro, povero e malato, sostenuto a braccia. E io che ce l’avevo con lui! Ora mi rimprovero di essere stato un fanciullo crudele.

Giovannino andò in casa di zia Marianna; io da Enrico Amante a San Potito, in un secondo piano. Al primo piano abitava un tal Luigi Isernia, un avvocato amico di casa Puoti, col quale pensavo di poter fare la pratica forense, giacché quel grillo non m’era ancora uscito di capo. Quando zio Carlo seppe il fatto, mi scrisse - «Evviva la furia francese!». E voleva che io stessi da zia Marianna insieme con Giovannino, col quale ero cresciuto. Ma gli risposi che, quando i padri si dividono, non potevano i figli restare uniti. Cosi si divisero a Morra e ci dividemmo a Napoli.

XIV

CASI FORTUNATI

Il secondo palazzo di lá dal quartiere dove erano allora accasermati gli Svizzeri, era quello in cui Enrico e io prendemmo casa. Al secondo piano era un gran terrazzo, con frequenti spaccature impeciate. Su di una parte di questo terrazzo era stata improvvisata una casetta di quattro stanze e una cucina, piena