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70 la giovinezza

d’aria e di luce, che a noi parve una reggia. Zio Carlo aveva dato i mobili di casa tutti a Giovannino, e a stento avevo potuto impetrare un letto. Con quello m’impossessai d’una stanza. In un’altra s’installò Enrico col suo letto e con alcuni vecchi mobili. Un vecchio divano con quattro sedie sdrucite decoravano il nostro salotto. A dritta veniva uno stanzone immenso, con una gran finestra in fondo, uscito pur allora dalle mani del fabbricatore, con le mura bianche di calce, e col tetto non incartato e col pavimento non mattonato. Là, entrando, alla dritta era un piccolo tavolino pieno di carte e di libri, ch’io chiamavo una scrivania, e dinanzi era una sedia di paglia, sulla quale, quando mi sedevo con la penna in mano e con gli occhi al tetto irradiato di sole, parevo un re, il re di quel camerone. Spesso vi andavo passeggiando in lungo e in largo, tutto a caccia delle idee e di frasi, e talora acchiappando mosche e allargandomi sul terrazzo, quasi l’aria mancasse ai voli della mia immaginazione. Quel camerone oggi non v’è più: se ne sarà cavato un par di stanze eleganti; ma io non posso pensarci senza tenerezza, e mi par che con esso se ne sia andata una parte della mia esistenza. Là per la prima volta io mi sentii chez moi, dando libero corso alle mie meditazioni e alle mie immaginazioni. Enrico ed io eravamo come due studenti, entrati pur allora nel pieno possesso di noi.

Un giorno mi capitò il babbo. Veniva per «vedere il tutto», come disse. Non era senza ansietà sul mio indirizzo, così solo, senza guida né freno. Ma s’accorse subito che eravamo buoni figliuoli, guidati e frenati da retti principii, ai quali si credeva come al Vangelo. Virtù, gloria, patria, giustizia, scienza, dignità, castità erano per noi cose reali, non nomi vani. Papà credeva di trovare due disperati; rimase ammirato alla nostr’aria spensierata e contenta. Egli si mise per terzo, e scendendo dal suo piedistallo paterno, ci si fece un allegro compagnone, e condiva la mensa con di bei motti e con arguti brindisi. Egli era dottore in utroque jure, e aveva interrotta la sua carriera per un matrimonio impostogli da ragioni di famiglia. Era un buontempone, di allegro umore e di buon cuore, senza dimani. Nei casi più tristi si consolava dicendo: — Dio non peggio — . Usava dime-