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ii4 la poesia cavalleresca


     Molti che dal furor di Rodomonte
E di quegli altri primi eran fuggiti,
Dio ringraziavan ch’avea lor sí pronte
Gambe concesse, e piedi si espediti;
E poi, dando del petto e della fronte
In Marfisa e in Ruggier, vedean, scherniti,
Come l’uom né per star né per fuggire
Al suo fisso destin può contraddire.

Byron e Leopardi parlerebbe qui della inesorabilità del destino. Ariosto scherza con questa idea, vi mette innanzi il paragone della volpe. Questo poter scendere a paragoni, questo non curarsi che di mettervi innanzi il fato vivacemente è il carattere della immaginazione.

L’Ariosto non ha per buon gusto descritta la battaglia che segue, rinforzato il campo pagano: vi sente mancanza d’interesse e realtà. A’ Cristiani non rimane che Brandimarte; è una strage, non una battaglia. La narra in un’ottava. Ammucchia in sei versi i sei guerrieri irresistibilmente impetuosi che hanno Carlomagno a fronte. Carlomagno si raccomanda ridicolamente a san Giovanni e san Dionigi, e finalmente scappa in Parigi. L’ottava comincia col fragor della tempesta e finisce in una fischiata.

     La forza del terribil Rodomonte,
Quella di Mandricardo furibondo.
Quella del buon Ruggier, di virtú fonte,
Del re Gradasso si famoso al mondo
E di Marfisa l’intrepida fronte,
Col re Circasso a nessun mai secondo,
Feron chiamar san Gianni e san Dionigi
Al re di Francia, e ritrovar Parigi.

Dov’è la traccia del sublime rappresentato in Rodomonte? L’epica che si sta sciogliendo a poco a poco, diverrà materia da Aristofane nella Discordia. Quando s’è vinto, cessa la subordinazione: Agramante non è più curato d’un frullo; Mandricardo