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questa quistione com’erami prima appassionato per Annibale e Leibnizio. Uscito appena dal Portoreale e dall’abbate Troise, gittatomi a capo in giú in mezzo all’aureo Trecento e ficcatimi bene bene nel cervello una cinquantina di testi di lingua, mi tenevo giá un grande uomo e parlavo di tutto. Non passava giorno ch’io non m’azzuffassi con qualcuno de’ miei compagni; e a vederci per via cosí caldi alzare la voce e protender le braccia, ciascun dicea in cuor suo: — Che diavol li tocca? — . Il diavol che ci toccava era la famosa quistione dell’origine della lingua italiana.

Lingua italiana? anzi toscana, anzi fiorentina; e davo dell’asino a chi la chiamava altrimenti; ben inteso che questo grazioso epiteto era una specie di pallone, che mi si rimandava con la stessa cortesia. La mia collera scoppiava soprattutto quando udivo ad alcuni attribuire l’origine della nostra lingua all’idioma provenzale; chiamavo costoro nemici e traditori del loro paese, e se fossi stato ministro, avrei istituita una commissione delle bastonate per insegnar loro ad amare la patria. Per dimostrare la nobiltá della nostra lingua, io correva fino al dialetto romano, fino alla lingua osca; avrei voluto correre fino ad Adamo. E guai a chi mi parlava di siciliani! Rovistavo librerie per trovare qualche testo antico toscano; e a Ciullo d’Alcamo contrapponevo trionfante messer Agatone de’ Drusi da Pisa e il cavaliere Folcacchiero de’ Folcacchieri da Siena. Chi ti può dire, mio caro Camillo, le dispute e le ire?

Dopo tanto tempo, ora che questa stessa quistione mi si riaffaccia, gitto un’occhiata a parecchi scrittori che ne hanno trattato, e veggendoli cosí appassionatamente smarrirsi in piccole gare, parmi di ravvisare in essi il mio antico me, di trovare in ciascuno qualche cosa de’ miei sedici anni.

Credo sia oramai tempo che la storia della nostra letteratura venga considerata con anima serena, pura da ogni preoccupazione. Abbiamo tante ricchezze, che possiamo con orgoglio mostrarle, senza arrogarci l’altrui: la vanitá e l’invidia non conviene a verace grandezza, e noi siamo una grande nazione. Ed a vergogna di quegli animi piccoli, che pongono l’italianitá nel-