Pagina:De Sanctis, Francesco – La poesia cavalleresca e scritti vari, 1954 – BEIC 1801106.djvu/283

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ma che batticuore! quanti colori sul volto! La cosa fini, quando piacque a Dio, con una doppia ammonizione del marchese, che non bisogna scrivere ne’ giornali, e che non si dice «giornali», ma «efemeridi».

Ecco, mio caro Luigi, quali curiose rimembranze mi ha ridestato un cantico di Lorenzo Borsini, capitatomi pochi giorni fa, dal Cairo. Lo sapevo scrittore faceto, pieno di spirito e di brio; me l’immaginavo armato di un riso sardonico, con un ghigno da Mefistofele, l’indice teso verso di me, ripetendo con una cera denunziatrice: — L’autore è un purista, uno scolaro del marchese Puoti — . Ma ohimè! «quantum mutatus ab illo!». O, per dir meglio, quanto siamo tutti mutati! Mi par quasi di esser morto e rinato con altre condizioni di vita, con altri destini. Chi ce l’avrebbe detto? Quel povero mio amico si trova con ventiquattro anni di ferri in sulle spalle, Lorenzo Borsini nel Cairo, ed io a Torino. Vi è qualche cosa di funebre in quel passato, non potendo riposare la mente che sopra rovine. Dov’è piú il marchese Puoti? e tanto fiore di gioventú? e tante speranze? e tanti sogni? E i nostri cari? Altri uccisi, altri in prigione, altri raminghi, altri rimpiattati in qualche paesucolo per obliare ed essere obliati! Quando io ho letto: «Adele Chini, nata di Lorenzo Borsini, mori di colera in Cairo, e sciolse all’urna un cantico l’inconsolabile padre suo»; io mi son domandato attonito: — È ben lui? La sventura, dunque, ha potuto agghiacciare il riso di Lorenzo Borsini? La natura sembrava averlo privilegiato di un’anima serena; pareva nato a ridere ed a far ridere. E la Fortuna ha avvelenato il dono della natura: «la sua cetra è rivolta in pianto, ed in voce di dolore la sua lira» — . Povero Lorenzo! Ti ho letto un pezzo incredulo: — Sta a vedere, diceva, che gli scapperá qualche facezia, e si rivelerá l’uomo antico — . Oh tu sei ben mutato; tu piangi, tu invochi la morte! Tu dei ben sospirare, come io, quei tempi felici, quell’avvenire ancora intero, quella giovinezza cosí speranzosa, quando era, per me, il piú grande infortunio che lo sapesse il marchese. Noi non sapevamo, ancora, che cosa fosse infortunio!

T’invio, mio carissimo, questo cantico, e se hai talora riso,