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iii. il «morgante» 57


Che vivrá dunque di lui?

L’essere stato il primo che sentisse come la grande epopea del Medio evo se ne andasse in dissoluzione: e che sulla fine del secolo decimoquinto tentasse di abbattere con la caricatura i dommi della forza brutale, la fede ne’ miracoli, tutta quella parte mistica. Non è riuscito a farlo in massa; è una caricatura sbagliata; nondimeno è riuscito nei particolari comici. Dovunque trova materia che gli si confaccia, è inarrivabile.

Vi è monotonia nel suo contenuto comico-buffonesco e nella forma, che si riduce a fínger di parlare seriamente ed a scoprire poi l’intenzione ridicola col linguaggio sconveniente, co’ paragoni sciocchi, con le idee ridicole che vi aggiunge. Cosi, finendo la descrizione d’una battaglia, dice che Orlando aveva fatta una gelatina. Cosi, per dare l’ultima pennellata alla bellezza d’Antea, dice che era tale «da fare spalancar sei paradisi». È monotono: ma lo sa essere stupendamente. Ecco come parla Rinaldo, dopo liberato Astolfo, desideroso di uccidere Carlomagno:

     Dicea Rinaldo: — Ignun non mi dia impaccio:
Io intendo a Carlo far quel ch’è dovere:
Come vedete ch’io le man gli caccio
Addosso, ognun da parte stia a vedere;
La prima cosa il vo’ pigliar pel braccio,
E levarlo di sedia da sedere;
Poi la corona di testa cavargli,
E tutto il capo e la barba pelargli.
     E mettergli una mitera a bendoni,
E ’n sul carro d’Astolfo farlo andare
Per tutta la cittá, come i ladroni;
E farlo tanto a Gano scorreggiare.
Che sia segnato dal capo a’ talloni;
E l’uno e l’altro poi farò squartare;
Ribaldo vecchio, rimbambito e pazzo! —
Tutto questo è naturale. Per queste due qualitá, merita un posto distinto.

Dovrei io essere più severo di quello ch’e’ sia stato per se stesso? Gl’Italiani sognavano allora un nuovo fiore della poesia