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226 saggi critici

alla lettura dei classici. Si traduceva non piú che due periodi di Cornelio Nipote, né ci era esercizio piú acconcio da addestrare in tutte le finezze della lingua e nell’organamento del periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte parti osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche scherzo del marchese, come : — Basta cosí: l’avete fatta tra gli orrori della digestione — . Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli sembrava migliore, e sopra quella faceva la correzione, sicché ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo quaderno. Il giovane, sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne usciva quella sera con la testa piú alta. Non è a dire che diligenza metteva il marchese in queste correzioni: spesso stava una mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva venire, e tutti a suggerirgli, e lui a dar col pugno sulla tavola e a gridar: — No! — , con una delle sue favorite esclamazioni. Ohimè! Talora la frase tanto cercata non veniva, e si finiva per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese levava la spalla e se ne consolava dicendo: — Non è poi il Vangelo — . Dopo la traduzione si leggeva qualche brano di autore classico, trecentista o cinquecentista, e la scelta era fatta con molto gusto. Il marchese era sincerissimo nelle sue impressioni e le comunicava irresistibilmente all’uditorio, soprattutto ne’ luoghi affettuosi, come la morte di sant’Alessio, o il lamento della madre di santa Eugenia, o il racconto del carbonaio nel Passavanti, o le patriottiche querele di Dino Compagni. Non riusciva con pari felicitá a comunicare la sua ammirazione quando si trattava di luoghi puramente «letterari o eleganti», come diceva: e non ricordo piú nulla delle mie impressioni, quando si leggevano brani del Caro, del Segni, del Giambullari, del Gelli, del Castiglione e di altri cinquecentisti, comeché egli ne andasse in visibilio e ci facesse notare molte «bellezze» e nelle parole e nell’artificio del periodo, ciò che egli chiamava «il magistero dello stile».

Come si vede, í giovani erano in continuo lavoro; ma non bastava. Il marchese richiedeva che essi studiassero a casa ne’ classici; e si accorgeva subito quando lo studio era poco o mal