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194 | storia della letteratura italiana |
smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di maestro Adamo, che sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo», è una felice caricatura; ma è una
freddura il dire:
E mastro Adamo gli percosse ’l volto col pugno suo, che non parve men duro. |
Ahi fiera compagnia! ma nella chiesa coi santi ed in taverna coi ghiottoni. |
Il riso muore quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio e, non che sentirne vergogna, vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un’aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo piú acconcio a dire: — Miratemi; — piú acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce: il rossore è proprio della faccia umana. L’uomo, consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi «sfacciato» o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se stessa: il comico, giunto alla sua ultima punta, si scioglie; e n’esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abiezione, predicata e portata in trionfo, aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l’orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Maestro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza;