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vii - la «commedia» 235


Questa etá dell’oro, collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi, ha ispirato a Dante una delle scene piú interessanti; ed è la pittura dell’antica e della nuova Firenze, fatta da Cacciaguida, uno dei suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l’ideale dell’etá dell’oro e della domestica felicitá, con tanta semplicitá di costumi, con tanta modestia di vita; e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali: Dio riserba dolori piú acuti ai magnanimi: lasciare ogni cosa diletta piú caramente e domandare il pane all’insolente pietá degli estranei, questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del piú misero e del piú grande. Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’i potenti della terra.

La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta «intellettuale». Beatrice spiega cosí il suo riso a Dante:

                                         S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di lá dal modo che in terra si vede,
si che degli occhi tuoi vinco ’l valore;
     non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
cosí nel bene appreso move il piede.
     
La beatitudine è la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la veritá, non come idea ma come natura vivente.