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ix - il «decamerone» | 295 |
dell’epiteto come d’una ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente, pure è lá il suo genio e la sua gloria, e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu chiamato anche «uomo di vetro», per una cotal sua mobilitá d’impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio le Rime, dove invano cerchi l’unitá organica del Canzoniere e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de’ suoi studi e reminiscenze classiche. Pure, tra molte volgaritá trovi un elevato sentimento dell’arte o, come egli dice, «l’amor delle muse che lo trae d’inferno», come chiama la terra deserta dalle muse. «Vidi» — egli canta —
una ninfa uscire d’un lieto bosco, e verso me venire co’ crin ristretti da verde corona. A me venuta, disse: — Io son colei, che fo di chi mi segue il nome eterno, e qui venuta sono ad amar presta: lieva su, vieni. — Ed io, giá di costei acceso, mi levai; ond’io, d’inferno uscendo, entrai nell’amorosa festa. |
Da questo elevato sentimento dell’arte è uscito il sonetto sopra Dante, scritto con una gravitá e vigore di stile cosi insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura d’intelligenza e d’arte, nel cui ingegno l’eleganza materna aggiunse al segno, che si tien gran miraeoi di natura. L’alta mia fantasia pronta e sicura passò il tartareo e poi ’l celeste regno, e ’l nobil mio volume feci degno di temporale e spiritai lettura. Fiorenza gloriosa ebbi per madre, anzi matrigna a me pietoso figlio, colpa di lingue scellerate e ladre. Ravenna fummi albergo nel mio esiglio; ed ella ha il corpo, e l’alma il sommo Padre, presso cui invidia non vince consiglio. |