Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
xi - le «stanze» | 365 |
parola è nel popolo piú musica che idea. Ciò che si diceva allora «cantare a aria», qual si fosse il contenuto o, come dice un poeta, «siccome ti frulla». Cosi cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda, con la stess’aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:
Ben venga maggio, e il gonfalon selvaggio, |
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de’ canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m’hai», «Giú per la villa lunga La bella se ne va», «Chi vuol l’anima salvare Faccia bene a’ pellegrini», ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne’ piú piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano «cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a’ tempi del Boccaccio, come s’è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti. Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co’ rispetti e le ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l’immagine sfarzosa