Pagina:De Sanctis, Francesco – Storia della letteratura italiana, Vol. I, 1962 – BEIC 1807078.djvu/65

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Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, «bestie che somigliano uomo». E dove non è virtú, non è amore e non dovrebbe esser bellezza; onde esorta le donne a partirla da loro:

Ché la beltá, ch’Amore in voi consente, a virtú solamente formata fu dal suo decreto antico, contra lo qual fallate.

Io dico a voi, che siete innamorate,

che se beltate a voi

fu data e virtú a noi,

ed a costui di due potere un fare,

voi non dovreste amare,

ma coprir quanto di beltá v’ è dato,

poiché non è virtú, ch’era suo segno.

Lasso! a che dicer vegno?

Dico che bel disdegno

sarebbe in donna di ragion lodato

partir da sé beltá per suo comiato.

Qui, sviluppato in forma scolastica, è il solito concetto dell’amore, che fa imo di due, unisce bellezza e virtú. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l’anima del mondo, l’unitá della vita. E poiché vede bellezza e non trova virtú, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d’ immaginazione cosi nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di «bel disdegno», per il quale dica: — Poiché nell’uomo non è virtú, cesso di esser bella, cesso di amare. — Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtá : «Lasso! a che dicer vegno?». Il poeta sente la vanitá de’ suoi desidèri e che il mondo andrá sempre a quel modo.