Pagina:De Sanctis, Francesco – Storia della letteratura italiana, Vol. I, 1962 – BEIC 1807078.djvu/77

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In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta: desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito : non ci è ancora l’ io, la personalitá dello scrittore.

Come la poesia, cosi la prosa cavalleresca poco attecchí in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa ariditá e indifferenza che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi o di Bondelmonte. Come l’uomo inculto parla assai meglio che non scriva, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacitá d’ immaginazione e di affetto che non trovi ne’ racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si dánno a’ giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto «fiore del parlar gentile» ; e veramente vi è tanta grazia e proprietá di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti piú tardi. Ma se la lingua è assai piú schietta e moderna che non è ne’ Conti cU antichi cavalieri e ne’ romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa ariditá. Ci è il fatto ne’ suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli dánno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli dánno interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve e non richiede arte, basta a conseguire l’effetto quella naturalezza e quel candore pieno di veritá che è nel racconto. Eccone un esempio :

Leggesi del re Currado, padre di Curradino, che, quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli erano dati a guardia non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui... E quei dicea: — Perché non battete me, ché mia è la colpa? — Diceano li maestri : — Perché tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te; onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. — E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietá di coloro.