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La lepre 151


L’acqua saliva, saliva, grigiastra, cupa, silenziosa. Il cielo, la terra e l’aria, paravano oramai composti solo d’acqua fredda e sporca.

Ma la sera dell’ottavo giorno la pioggia cessò, e tutto d’un tratto le nuvole s’aprirono. Qua e là fra la nebbia cinerea apparve il cielo verdastro, e in una spaccatura di nuvola brillò, come nella profondità di una miniera, l’argento dorato della luna.

L’acqua calò, parve ritirarsi, stanca di conquista, trascinandosi dietro un bottino di fronde, di rami, di sabbia, di animaletti morti.

L’indomani il sole illuminò il luogo desolato, e la lepre, bagnata e affamata, uscì dal suo nascondiglio e potè riscaldarsi e guardarsi intorno.

Lo stagno era scomparso: un fiume lento e fangoso passava sotto la riva alta che aveva resistito come un argine: e l’acqua continuava a trasportare le sue vittime e il suo bottino.

Ed ecco che fra i rami nudi e le foglie secche e fra mille bollicine che parevano le perle d’una collana rotta, la lepre vide i due leprotti morti. Lunghi stecchiti, con gli occhi spalancati e le orecchie dritte, essi correvano, correvano sull’acqua, sempre l’uno accanto all’altro da buoni fratellini che anche dopo morti si volevano bene.

Oramai la vecchia lepre era proprio sola nell’isola.