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gli parve di non riconoscerlo più. L’amico s’era trasformato in nemico: aveva gli occhi non più dolci e sereni ma verdi per la cupidigia e l’ansia del giocatore.

Elia si sentì perduto. Tutti i suoi cattivi istinti lo ripresero. Dimenticò Pasqua, dimenticò la figura del vescovo d’Olbia. Trasse dalla busta i biglietti che non erano suoi, e li giocò. E li perdette. Rimase con le dieci lire d’argento. Giocò; perdette ancora. Si alzò, livido di collera. Ma l’amico gli disse che poteva ancora giocare sulla parola. Egli giocò sulla parola e vinse: potè rimettere entro la busta, se non gli stessi biglietti che ne aveva levato, altrettanti per la stessa somma; e allora parve svegliarsi da un sogno. Si alzò e se ne andò. Il negoziante rimase nella casa da gioco, ed egli non lo rivide mai più.

*

Pasqua dormiva quando egli rientrò. Era già l’alba. Egli battè all’uscio del vecchio, e gli raccontò ogni cosa come ad un padre.

— Avevate ragione voi, — gli disse. — A volte il diavolo prende l’aspetto di un cattivo compagno. Come farò, adesso? Non m’è rimasto un centesimo, tranne i denari per l’offerta.