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letto, e quando Cosima, con un coraggio superiore alla sua età, cercò di scoprire il mistero si accorse che l’infelice Enza giaceva in una pozza di sangue nero.

Arrivò il medico e disse che si trattava di un aborto. Alla meglio tentarono di riparare: ma era tardi: prima che il marito tornasse da una seduta al Tribunale, Enza era morta. Morta, senza dolore, senza coscienza, vuota di tutto il suo sangue malato e turbolento: adesso era bianca, bella, purificata, come una statua di marmo scolpita sul suo modello. Prima di avvertire la madre e le sorelle, prima ancora che Gioanmario rientrasse, Cosima, da sola, chiuse i grandi occhi vitrei di Enza, ne lavò il corpo, trasportato in un lettuccio della camera attigua a quella matrimoniale; lo profumò; compose i bei capelli castani intorno al viso diafano, e infine la rivestì del modesto abito bianco di sposa e le calzò anche le scarpette di raso. Agiva sotto l’impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l’abbandonò mai più, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l’antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini.