Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/104

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74 grazia deledda


mani bianche e affusolate di donna e gli occhi pieni di sogni; e non era buono neppure a montare sulla giumenta sulla quale balzavano d’un salto le servette di casa per andare a prender l’acqua alla fontana: come nei suoi eterni studi, nelle Università più celebri del Continente, spendendo tutti i risparmi della famiglia, non riusciva o non voleva riuscire a prendere la laurea. Ad ogni modo questo bellissimo, questo elegante e quasi principesco studente (e in quei tempi e in quel luogo la parola studente significava ancora un essere superiore: un uomo al quale potevano essere assegnati i più alti e potenti destini della terra) portava davvero nella cerchia familiare, primitiva, isolata, quasi condannata a un esilio dal mondo grande, un soffio di quella grandezza tanto più luminosa quanto più lontana. Egli parlava di Re, di Regine, di alti personaggi politici, di artisti e di letterati, come fossero tutti suoi intimi amici.

Sulla figura di Gabriele d’Annunzio, allora in tutto il suo più radioso splendore, circonfusa inoltre dall’aureola di notizie leggendarie, egli si appoggiava sopra tutto, come il credente si appoggia alla colonna del tempio per riceverne forza e maestà.1

Le cose raccontate dal buono, dall’epico Antonino, infiammavano di folli sogni il cuore del rude,

  1. Cancellate, ma leggibili, nel manoscritto seguivano le parole: «Questo tempio, questo San Graal col tabernacolo d’oro più sfolgorante del sole era la poesia di Gabriele D’annunzio».