Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/197

Da Wikisource.

cosima 151


— Che, avete freddo? — domandò la signorina. — Buon segno: vuol dire che la febbre passa: fatemi sentire.

E gli toccò la grande orecchia destra, scura e dura come la facciata di una grotta. Al contatto della piccola mano, egli rabbrividì, come per il solletico: i suoi occhi ebbero di nuovo un balenìo d’occhi di cane accarezzato.

— Siete fresco come rosa, zio Elia: camperete ancora cento anni, quando anche la nostra memoria sarà dispersa.

Egli sorbiva il caffè, versò nella tazzina quello che s’era versato nel piattino e raschiò il residuo dello zucchero, come fanno i bambini: ma anche dopo rimase col viso piegato, guardando il fondo della chicchera come ci vedesse qualche immagine.

— Dov’è la padrona? — domandò sottovoce.

E Cosima ebbe l’impressione che egli volesse dirle qualche cosa, ma senza pericolo di essere ascoltati.

La padrona era affacendata nelle stanzette attigue: ed egli disse:

— Si sarà spaventata, stanotte, povera padrona. Per colpa mia: e anche lei.

— Ma no, zio Elia: anzi ho avuto quasi piacere: non avevo mai sentito un diavolìo così, e in piena campagna poi. Oh, io non sono paurosa: se in casa sento un rumore, di notte, mi alzo e scendo anche in cantina esplorando se ci sono i ladri.