Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/219

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cosima 169


vestita in modo quasi buffo, tutta volanti e frangie, con un cappellino a sghimbescio sui radi capelli gialli, balzò verso la fanciulla, la prese quasi a volo sul predellino del vagone, la strinse al suo petto scarno, le coprì il viso di baci: i suoi occhi di un azzurro di porcellana erano stillanti di lagrime che le colavano sul naso aquilino e si confondevano con la saliva che le schizzava dalla bocca. E con un singhiozzo convulso chiamava a voce alta la fanciulla col suo nome e cognome, tanto che Cosima si vergognò: la gente la guardava, qualcuno doveva già conoscere quel nome e quel cognome, e salutava, fra il rispetto per lei e la beffa per la sua chiassosa ospite. Avrebbe voluto risalire sul treno e tornarsene a casa: ma era destino che quel giorno ella dovesse cominciare a conoscere le tribolazioni della celebrità, perché all’arrivo nella casa dell’ospite, — un grazioso palazzo tutto balconi, di fronte a un giardino e a una chiesa, — lungo la scala di marmo con la ringhiera ornata di tralci verdi, vide con mite terrore una fila di bambine e giovinette, quasi tutte vestite di bianco, con mazzolini di fiori in mano. Sembrava la scala del Paradiso, vigilata da angeli senza ali: e mentre il facchino scaricava dalla carrozzella la modesta vecchia valigia di Cosima, reliquia di famiglia, e la stessa donna Maria, l’ospite palpitante, s’incaricava di portarla di sopra come un prezioso tesoro, le ragazzine intonarono un coro che pareva insegnato loro da