Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/42

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20 grazia deledda


lo, era della stessa famiglia; e poiché nella camera della madre s’era di nuovo fatto silenzio, ella ridiscese cauta, e sollevò la tendina di percalle a fiori rossi e gialli.

Tante cose straordinarie arricchivano le due mensole trasversali: a quella più alta Cosima non poteva arrivarci, e doveva allontanarsi di due passi per vederci bene; ed era giusto che le cose lassù non dovessero toccarsi, come non si toccano i sacri oggetti dell’altare. Con l’altare la mensola aveva qualche rassomiglianza, coi quattro candelabri in fila, due di ottone, due di rame; e in mezzo un vaso di vetro; ma l’oggetto più meraviglioso era un grande piatto di cristallo, finemente inciso come nel diamante appoggiato alla parete di fondo; Cosima non ricordava di averlo mai veduto adoperare, e neppure aveva un’idea dell’uso che poteva farsene; questo lo rendeva più raro, quasi misterioso: le pareva, vagamente, un simbolo, un piatto sacro, proveniente da antichi tesori, e magari una immagine del sole, della luna, dell’ostensorio quando il sacerdote lo innalza e lo fa vedere alle folle adoranti. E lei lo adorava davvero quel piatto, alto, intoccabile; lo adorava, – e questo anche lo capì molto più tardi, – perché rappresentava l’arte e la bellezza.

Nella mensola di sotto c’erano stoviglie, ampolle, e alcune tazze per caffè, bellissime anch’esse, dipinte di rose pallide e dorature delicate; e i relativi cucchiaini di ottone, col manico lavorato; fin