Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/82

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54 grazia deledda

vegliava ancora nella stanza da pranzo, leggendo un numero arretrato della sua prediletta nerolistata Unità cattolica. D’un tratto qualcuno bussò lievemente alla porta. Il signor Antonio aprì, e neppure per un attimo si illuse sullo scopo di quella visita insolita. La strada era buia, ma al chiarore che, per il corridoio d’ingresso, arrivava alla porta, egli vide, nel vano di questa, come in un quadro a fondo scuro, una figura gigantesca, con un ruvido costume nero dalle brache giallastre, che aveva qualche cosa di demoniaco. Il viso color bronzo era circondato da una barba a collare, di un nero corvino, che lasciava scoperte le grosse labbra sanguigne: gli occhi, con le sopracciglia come quelle della sorella dei banditi, ma esageratamente più abbondanti, avevano la pupilla grande e la sclerotica azzurra.

«Sono perduto», pensò il signor Antonio, ma non finse neppure di sorridere per nascondere la sua forza. Fece entrare l’uomo, e notò che costui, nonostante la mole massiccia della sua persona, camminava silenzioso e leggero come un daino: aveva ai grandi piedi calzari di pelle grezza, allacciati sotto le uose di orbace: calzari da uomo che usa correre furtivo e allontanarsi in poche ore dal luogo del suo misfatto, in modo da procurarsi un infallibile alibi.

«Questo, stanotte mi strozza», pensa il signor Antonio; tuttavia lo fa entrare nella stanza ospi-