Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/148

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dura e col capezzolo spaccato, con una insolenza provocatrice.

Era quello che ci voleva, quel giorno, per il figlio del carbonaio: strisciando come il serpente fra i cespugli si avvicinò alla pianta, vi si allungò, tese il braccio: il frutto cadde, come una meteora, fra lo scintillare dorato delle foglie che l’accompagnavano: il ragazzo se la cacciò in tasca e fuggì via correndo quasi carponi sotto il muro, mentre una voce tonante, simile a quella che scacciava appunto i nostri padri dal paradiso terrestre, risonava dall’alto di una finestra. Ma quando il servo del Commendatore venne giù, in giacchetta azzurra e scarpe di feltro, il vero ladro era sparito, e due dei suoi disgraziati ammiratori, i figli del lucidatore, tentavano di seguirne la traccia, quasi fiutando l’odore del frutto proibito. L’uomo li conosceva bene tutti, canaglie figli di canaglie; inseguì dunque questi due, d’impeto, li afferrò con le dita, come un rastrello, per le orecchie e i capelli, fece atto quasi di sbatterli uno contro l’altro come faceva con le pantofole del padrone, poi se ne lasciò sgusciare di mano uno, il più grande, per meglio pestare a pugni e schiaffi l’altro, che allungava il collo e faceva un viso di gatto strangolato.

— Non siamo stati noi, — gridò correndo in avanti il fratello.

— Chi è stato dunque, mascalzoni?

Ma nessuno di quelli che lo sapevano fiatò: forse per un istinto di omertà, forse per vendicarsi in qualche modo dell’uomo che picchiava. Passò però una piccola suora di porcellana nera

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