Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/265

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una spia pericolosa, quasi una rivale gelosa che la seguisse per far magari, al momento opportuno, uno scandalo. Del resto il giovine sembrava più preoccupato dei ragazzi del borgo che della signorina in celeste: pareva non la vedesse neppure, un po’ chino come a guardare i pesciolini allegri che affioravano sull’acqua trasparente, in una rete d’oro che ondulava intorno ad essi senza volerli pescare. Anche il cane, piccolo e duro, li guardava: ma i suoi occhi, pur riflettendo il lucente gioco dell’acqua, sembravano, nella bautta marrone che li circondava, attoniti e tristi come quelli della volpe della ragazza.

Ella d’un tratto, impazientita, se la tolse, questa volpe, e la sbattè; poi sedette su uno dei ceppi levigati dei pali che circondavano l’estremità del molo, e sollevò il viso con aria di sfida, anzi con un po’ di sfrontatezza. L’altra sedette anche lei, due ceppi distante, e le voltò un po’ le spalle guardando il tramonto. Sullo sfondo ardente, dentellato dal profilo della pineta, ella parve disegnarsi su una lamina d’oro con l’estremità azzurra del vestito sciolta nell’azzurro del mare. E gli occhi non si vedevano mai, anche adesso che l’altra li cercava coi suoi, cupi e avidi di peccato, di dispetto, col riflesso del sole che pareva li iniettasse di sangue.

E perchè quel badalucco rimaneva impalato là in mezzo alla palizzata, con la catenella del cagnolino da signora fra le dita intrecciate sulla martingala della sua giacca, anch’essa di un taglio femmineo? Ebbe voglia di avvicinarlo, di sollecitarlo lei: ma d’improvviso sentì vergogna


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