Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/62

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il proprio fastidio, la maschera della serva travestita da bambinaia di stile, la carrozzella impegnativa, il segreto della propria scontentezza.

Questo senso di riposo le diede un momento quasi di sogno: il platano attraverso la vetrata, vibrava come un’arpa, tutto d’oro sull’oro dello sfondo: il loro platano, vivo, amico, protettore. Sì, le parve che l’albero avesse qualche cosa di paterno; la cullava, le prometteva ombra, frescura, salute: e per la prima volta anche lei sentì la gioia della proprietà, il respiro di chi, dopo un camminare malsicuro per campi altrui, è arrivato alla sua terra e vi si trova in pace.

Ma sentì che ancora qualche passo doveva farlo: mettere in ordine i cassetti, chiudere i ripostigli, seppellire i suoi piccoli segreti.

— Bisogna metter dentro anche la carrozzella: è ora — disse alla bambina già addormentata, asciugandole il latte dalla bocca. E andò per rimetterla nel suo nido, ma dalla terrazzina vide uno spettacolo che non la fece gridare solo per riguardo alla curiosità della serva.

I bambini avevano messo sottosopra le coperte e il materassino della carrozzella, e dal ripostiglio traevano gli oggetti ch’ella vi aveva nascosto per metterli al sicuro durante il trasloco e richiuderli poi di nuovo nel cassettone. Ma nell’accorgersi ch’ella era più mortificata di loro, e quasi per un istinto di aiutarla a scusarsi, essi stessi le andarono incontro, porgendole un pacchetto di lettere e una busta di fotografie.

— Libro, — disse uno, guardandola sfacciatamente; e l’altro aggiunse: — figure.

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