Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/77

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Celestino, per quanto flemmatico e lavoratore, ci faticava assai: non è a dire, poi, i brontolii della governante, per il disordine e il polverio della sala da pranzo. Il padrone invece sembrava beato: assisteva ai lavori come si trattasse della costruzione di un palazzo, e disegnava il prospetto del camino con finezza artistica: quando poi l’operaio se ne andava, egli sedeva davanti alla buca della parete, fra le macerie, facendo le prove di quando il camino avrebbe funzionato. Vedeva divampare il fuoco, sentiva il gemere degli spiriti del vento imprigionati dal tubo della conduttura, e ricordava la sua infanzia e la sua fanciullezza con luci romantiche, quali solo in certe notti d’inverno e di bufera gli erano balenate nel tepore del letto solitario. Nella fredda atmosfera della realtà, quei tempi remoti, piuttosto duri e meschini, mentre egli faticava come Celestino per scavarsi una nicchia nella muraglia della vita quotidiana, una buca dalla quale saltasse fuori un po’ di calore e di benessere materiale, quei tempi gli apparivano come uno strato di barbarie, di privazioni, di servaggio. La sua famiglia era povera: il padre, contadino, se voleva il fuoco doveva raccattarsi le legna; e il pane per i figli era acre del suo sudore: quello che non gli costava niente erano le fole che, nelle sere d’inverno, quando la neve chiude in casa anche i più poveri, raccontava ai figli, forse per sopperire col loro nutrimento di sogno allo scarso nutrimento della realtà. Dopo tutto era un uomo buono, biblico rassegnato alla sua sorte; era famoso per le sue storielle, e ne sapeva di quelle che, con le frangie che egli ci


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