Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/255

Da Wikisource.

— 245 —

cesco, e persino padre Leone e le suore del convento ne erano i deformi protagonisti, — le destavano paura. Per distrarsi, tentava di pensare al passato, al suo passato, a quello che apparteneva a lei sola: e certe nenie infantili le risalivano dal mistero della memoria, come il residuo di un profumo di una fiaba antica: nenie infantili, ma già tiepide di una vaga sensualità, nostalgiche e monodiche come i canti dei pastori adolescenti, vaganti dietro il gregge che pascola nella solitudine, privi di donne, di amici, di amore, di madre: gliele aveva cantate, cullandola orfana e straniera, in una terra ostile, la serva fedele: e le erano rimaste in fondo all’essere, come un elemento carnale, poiché ella le aveva ripetute mille e mille volte, durante i periodi inquieti del suo sviluppo di fanciulla, nelle dormiveglie, nei turbamenti della giovinezza, e le servivano ancora, a volte, come un calmante o una musica che addormenta.

E anche adesso finiva, ricantandole a sé stessa, col riaddormentarsi più tranquilla: allo svegliarsi, erano rinnovati propositi di vita serena; tornava a sorriderle la casetta fra i rosai e i campi di frumento, il sentiero del bosco, fra i castagni e le felci, che scendeva alla fonte salutare. Lo stesso fantasma immobile nella penombra della sala, pareva la incoraggiasse a muoversi.

«Va, Noemi, va: la vita è ancora bella,