Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/264

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a godersi questo incanto: io, per me, ci starei anche alla notte: ci metterei un’uccelliera, con gli uccelli più rari: piccoli pappagalli, vedovelle d’America, usignoli nostrani. O almeno qualche coppia di cornacchie, di quelle piccole, nere, tanto intelligenti. E tartarughe, rospetti; anche una scimmietta non ci starebbe male. Non ama le bestie graziose, signora Noemi!

— Mah! Mi ci affeziono troppo. Avevo un gattino, a casa mia, quando mi sono sposata bellissimo, intelligente: volevo portarlo via, ma non fu possibile. Poi scrissero che per tre giorni mi cercò: non mangiava più, non dormiva: morì di dolore. Ed io ne ho sofferto in modo da non voler più animali in casa mia.

Antioco si era tutto animato: vivi e acuti i suoi occhi guardavano adesso il viso della signora Noemi, la sua mano scompigliò, senza ch’egli paresse accorgersene, l’onda composta dei suoi capelli. Disse, quasi con impeto:

— Un fatto simile, ma più straordinario e tragico, è accaduto di recente anche a me. C’era nella mia casa un bambino, figlio di una donna di servizio: era una specie di animaletto anche quello, perché idiota e sordomuto. Eppure si era affezionato a me, e mi seguiva come un cagnolino. Di umano non aveva che gli occhi, ma senza sorriso; solo, a volte, festevoli appunto come quelli di un cane.