Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/280

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si alzò, si aggiustò il cappello, si trovò così vicina ad Antioco che ne sentì l’odore della pelle: profumo di sapone e di tabacco, di capelli e di alito caldo. Un’ultima vampa di sensualità la sfiorò; cadde; e quando tese la mano al gobbo, le parve di sentire anche l’odore intimo di lui, sebbene fasciato da un profumo umido di acqua di Colonia; ed era quello del gobbo, un sentore di animale, di vecchio ariete: odore ch’ella sentiva, nel suo salottino, a certi suoi inquilini quando venivano col deliberato proposito di imbrogliarla o almeno defraudarla.

— No, gobbo, tu non mi ingannerai, — pensa, mentre egli le tiene la mano e gliela accarezza quasi vellicandola; mentre con l’altra mano ella sfiora l’onda azzurra dei miosotis.

Dice il gobbo sollevandosi più che può come per misurarsi con lei:

— Dunque, donna Noemi, presto faremo questo viaggio per aria: per oggi rallegriamoci di quello che la sua gentilezza ci ha permesso di fare qui. Grazie, e tanti auguri.

Ella non gli risponde; ma si rivolge rapida ad Antioco e, con la sua voce bassa, quasi dura, gli dice:

— Gli auguri a lei.

Egli s’inchina; fa il saluto romano: poi mentre se ne vanno, cammina sull’ombra del gobbo, e pare voglia calpestarla.