Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/288

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Mi seggo accanto al suo letto, dopo avergli sfiorato la mano inerte, stranamente calda in quel corpo che sembra dissanguato, e aspetto che parli. Ed egli parla: la sua voce è la stessa di una volta, – delle poche volte che egli mi parlò, al tempo del mio fidanzamento con la figlia: ma anche allora era già afona e stanca, o meglio distratta e lontana; voce di uno che ha fatto un viaggio lungo, estenuante, che non ha raggiunto né mèta né scopo, e adesso si ripiega sul suo corpo sfinito e parla nel primo dormiveglia che precede il cieco sonno della stanchezza.

Eppure le sue parole mi destano sorpresa, mi turbano, anzi destano in me un subbuglio di vita. Egli mi domanda dell’argine: è informato di tutto, e se non si interessa alla cosa per la sua, dirò così, esteriorità, pare lievemente preso dal bisogno che la gente capisca il significato che può avere il compimento di un’opera come quella.

È il primo uomo che, in tutto questo mio affannarmi ad esaudire il desiderio della morta, intenda il mio segreto pensiero. Adesso egli parla degli abitanti del paese, della loro miseria, della loro avarizia morale: pacato, estraneo, egli tuttavia dice limpide e nude verità e giudica nettamente cose e persone: tutto e tutti conosce, da Paolone al parroco, dai carbonai del monte alle ragazze della posta. Mi domando chi può informarlo così: ma pare che egli senta, nel si-