Pagina:Deledda - Nostalgie.djvu/16

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allo sportello: un lungo muro fuggiva ora davanti al treno; si vedevano case, siepi, orti, canneti scossi dal vento, qualche fanale giallo in quel grande biancore di luna autunnale.

— San Paolo! Il Tevere! — disse Antonio, di nuovo alle spalle di Regina.

San Paolo! Il Tevere! Regina intravide appena il luccichio verdastro del fiume, e il cuore le battè forte, sebbene dopo il primo impeto di gioia olla avesse sentito, come sempre le accadeva, un’ombra di triste diffidenza velarle l’anima.

— Sì, — pensava. — Roma, la capitale, la città meravigliosa, senza nebbie, piena di sole e di fiori. Ma che cosa mi aspotta laggiù? Io vado, giovine, felice, adorata, a gettarmi fra le braccia di Roma come mi son gettata nelle braccia di Antonio. Ma che cosa saprà darmi Roma? Noi non siamo ricchi, e la grande città è come... la gente: ama poco e dà poco a coloro che non son ricchi... Ma noi non siamo neppure poveri, — concluse, riconfortandosi.

Il treno fischiava. Improvvisamente Regina trasalì. Davanti ai suoi occhi, nel chiarore della luna e dei fanali che ora si moltiplicavano, al di là di una siepe flagellata dal vento, una palazzina era apparsa e scomparsa quasi magicamente.

— Pare il nostro villino, — disse ella con tristezza, colta dal ricordo del caro nido paterno, adagiato sull’alto argine del Po.

Il treno fischiava, rallentando la corsa vertiginosa.

— Eccoci, — disse Antonio; e Regina sentì il suo ricordo dileguare come era dileguata l’ap-