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forza al Cavallerizzo di prevalersi in vece del raziocinio, di quei segni e mezzi che dall’arte sono creduti i più opportuni per farli comprendere ciò che da esso vuole esigere; e questi appunto sono quelli che nelle scuole diconsi chiamate, delle quali io m’appiglio di dar contezza in questo Capitolo.

Il darsi ad intedere di poter aver parte nell’esecuzione delle azioni del Cavallo, come è la presunzione di chi agisce per pratica senza cognizione di causa, è il sommo degl’errori, e la causa che rende difettosa la chiamata, e impossibilita l’esecuzione delle azioni, in vece di dar loro risalto e perfezione, come pretende di fare chi ha sposata questa massima.

Quello che non lascia in libertà la potenza motrice d’agire a seconda che comporta la sua costruzione, e vuol con la chiamata esigere più di quello che può dare, rende difettosa l’azione, (come ho detto) in Cavallo dell’ultima sofferenza, e ributta quello che ha coraggio d’opporsi ad essa, e di far fronte. E però è principio infallibile, che la chiamata debba limitare l’azione al Cavallo, ma non già mai togliere ad esse la libertà dell’esecuzione, ch’è di sua privativa; perchè egli solo sa la maniera, con la quale va e può essere eseguita, ed è il solo che può darli l’ultimo grado di quella perfezione che comporta l’indole e natura sua.


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