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290 la fantesca


Nepita. Or questo no, padrona: fategli ogni altro dispiacere e lasciate questo.

Santina. Vo’ cavargli gli occhi e troncargli il naso con i denti.

Nepita. Cavargli gli occhi e troncargli il naso ben potete, ma non por mano ad altro.

Santina. Non ti par buona vendetta?

Nepita. A me, padrona, no. Io gli renderei pan per focaccia.

Santina. Taci, ché sei una pazza. Vorrei piú tosto esser stracciata da mille lupi, che esser tócca da un sol uomo che non fusse mio marito.

Nepita. Io vorrei piú tosto esser straccata da mille uomini, che esser tócca da un sol dente di lupo.

Santina. S’egli ha rotto le leggi del matrimonio, non l’ho rotte io né le romperò finché viva. Egli lo meritarebbe certo; ma io vo’ mirar me non lui. Una donna deve far conto del suo onore.

Nepita. L’onor non è bianco né rosso, che si possa vedere: l’onore sta nell’opinion degli uomini, però bisogna farlo secreto. È meglio esser tenuta bona e non esserci, ch’esser contaminata senza effetto.

Santina. Tu desii la morte a me. Vo’ che paghi questo cattivo desiderio con l’ossa tue. Ecco la casa terrena. Sta serrata a pèstio, la spezzerò a calci: l’ira mi prestará forza.

Nepita. Per iscampar da questo cattivo influsso, tuo marito deveria far come quello animale che si strappa i suoi genitali e gli butta a’ cacciatori per salvar la sua persona, ché è ricercato sol per quelli. Ma io ti dico, padrona, ch’egli andrá per la decima e ci lascierá lo sacco.

Santina. Che vuoi dir per questo?

Nepita. Io ben m’intendo.

Santina. La porta s’apre: eccolo venir fuora tutto rosso, la serra dentro di piú. Mira come sta stracco e affaticato.

Nepita. Ascoltiamo di grazia, padrona, che dice. Giá non vi può scappare, che non facciate le vostre vendette.